Caso pedofilia, Papa sotto tiro per portargli via qualche miliardo di euro

C’è una sola cifra ufficiale fino ad oggi rivelata sull’entità dei risarcimenti che la Chiesa americana ha dovuto pagare per i casi di pedofilia. E’ contenuta nel rapporto stilato dalla John JAY College of Criminal Justice per la conferenza episcopale americana. Fino al 2002 ha censito pagamenti totali per 572 milioni di dollari, 499 effettuati direttamente dalle diocesi coinvolte e 72,3 sopportati da ordini religiosi. Al rapporto ogni anno vengono allegati i nuovi risarcimenti ottenuti con trattativa diretta e talvolta anche in seguito a veri e propri processi: il costo totale sopportato dalla Chiesa americana fino ad oggi si avvicina al miliardo di dollari. Ed è una cifra calcolata per difetto: molte diocesi hanno perferito tenere segreti i patteggiamenti su casi che non erano esplosi sulla stampa locale. D’altra parte bastano già i casi censiti ufficialmente: sono ben 4.392 nei soli Stati Uniti i sacerdoti o i religiosi accusati di pedofilia. Per ognuno di loro su un database pubblico all’indirizzo Internet http://app.bishop-accountability.org è archiviata tutta la documentazione raccolta negli anni. Lì da anni sono depositati tutti i documenti relativi al caso di padre Murphy della diocesi di Milwaukee. Anche i carteggi fra gli arcivescovi e il cardinale Tarcisio Bertone, all’epoca segretario della Congregazione della dottrina della Fede. Quel che sta agitando in queste ore il New York Times non è dunque uno scoop giornalistico: gli avvocati di cinque vittime degli abusi sessuali hanno fornito documentazione che era ampiamente pubblica (addirittura on line) e pubblicata dalla stampa locale. Perché allora imbastire una nuova campagna sulla base di documenti editi, già discussi e che fra il 2002 e il 2004 avevano ricevuto spiegazioni e versioni dei diretti interessati (anche queste archiviate)? Il motivo è facile da intuire, senza correre dietro a troppi complotti difficili da dimostrare. Il grosso dei casi di pedofilia negli Stati Uniti è stato gestito da cinque studi legali con sede principale in America e ramificazioni internazionali. Alcune di queste law firm hanno preso la difesa di vittime di presunti abusi sessuali da parte della Chiesa anche in Irlanda. Non è noto, ma è possibile che qualche studio stia valutando anche i casi tedeschi. Fino ad ora i cinque studi legali principali hanno ottenuto dalle trattative sui risarcimenti con le varie diocesi americane 43 milioni di dollari di fatturato, e non capita naturalmente tutti i giorni. Una cifra rilevante, che rappresenta la parte principale di una torta da 65 milioni di dollari (il resto è diviso fra singoli studi legali di provincia). Ma il monte-risarcimenti finora è stato contenuto proprio dalla decisione di delegare le trattative ad ogni singola diocesi. Anche quando le Conferenze episcopali hanno affrontato la piaga della pedofilia con pubbliche scuse, la linea dei legali di parte è stata quella di addossare la responsabilità ai singoli al massimo riconoscendo le colpe dei vertici di alcune diocesi, subito rimossi. Una linea che finora è riuscita a fare limitare i danni e anche l’entità stessa dei risarcimenti. Alzare il tiro sul Vaticano e ottenere un’ammissione di responsabilità da parte delle più alte gerarchie o addirittura da parte del Pontefice, farebbe lievitare sensibilmente il monte-cause, probabilmente provocando la bancarotta dello Stato del Vaticano. Non sono in pochi a ritenere che il pressing straordinario che si verifica in queste settimane abbia innanzitutto ragioni economiche. Gli interessi sono notevoli, e non solo quelli degli studi legali. Negli Stati Uniti in bancarotta o quasi è già andata negli anni passati la diocesi di Boston. Per fare fronte alle cause già definite, ai patteggiamenti e alle cause di pedofilia ancora in corso, ha dovuto mettere in vendita uno a uno gli immobili di un patrimonio che era stato valutato in 500 milioni di dollari. Con la pistola alla tempia e la necessità di fare cassa, è stato venduto più o meno alla metà del suo valore. C’è addirittura un gruppo imprenditoriale nato e cresciuto sul business della pedofilia negli Stati Uniti: quello italo-americano dei Follieri. Il giovane erede Raffaello alla fine si è messo nei guai ed è stato arrestato due anni fa con accuse assai pesanti. Ma nel frattempo è riuscito a fare incetta di immobili (anche grazie ad alcune vantate entrature vaticane) dalle principali diocesi coinvolte negli scandali, comprandoli in tre casi in blocco a un prezzo scontato oltre il 50% i valori di mercato e poi rivendendo il tutto con ampio guadagno. Follieri non è l’unico. E a molti fa gola una torta che se il Vaticano venisse messo ko potrebbe valere qualche decina di miliardi di euro.

Santoro e Annozero sono il peggio. Fanno danni alla giustizia. A dirlo non è il cav, ma una toga rossa

Chissà se Edmondo Bruti Liberati, procuratore aggiunto di Milano ed esponente di spicco di Magistratura democratica ieri sera ha visto anche il nuovo processo via web tv e satellite imbastito da Michele Santoro a Bologna. Un mix fra processo politico a Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi e di un processo vero, una docu-fiction con primo attore Marco Travaglio e per sceneggiatura le carte della procura di Trani. In scena anche i soliti attori che recitavano coordinati da Sandro Ruotolo i brogliacci delle intercettazioni. Chissà se l’ha visto. Perché cosa ne pensi anche una delle più autorevoli “toghe rosse” di Italia, non è più un mistero. Bruti Liberati lo ha detto fuori dai denti il 23 marzo scorso, partecipando a un seminario di formazione del Csm a Roma. Spiegando che Annozero e Santoro sono nocivi alla giustizia, e come per i fumatori di tabacco, bisognerebbe proprio dire loro di smettere. “Con le trasmissioni di Matrix su Erba”, ha detto Bruti Liberati, “è stato insidiato il primato, per me negativo, fino ad allora detenuto da Porta a Porta: si è passati decisamente al genere della docu-fiction, con verbali di intercettazione recitati da attori. Ma poiché la gara al peggio è sempre aperta, ecco Michele Santoro che con Annozero si spinge oltre e la docu-fiction si espande con la messa in scena di interi verbali di dichiarazioni recitati da attori, il tutto sotto gli occhi di una nuova sua compagnia di giro”. Benvenuta allora, secondo il procuratore aggiunto di Milano, la decisione dell’Autorità di garanzia nelle comunicazioni che ha posto un freno alle docu-fiction giudiziarie. Ma Bruti Liberati va oltre, perché secondo lui bisognerebbe impedire anche ai magistrati per dovere deontologico di partecipare ad Anno zero o trasmissioni simili se si mandano in onda docu-fiction giudiziarie. L’imperativo è uno solo, secondo il procuratore aggiunto di Milano: “il magistrato non coopera, nemmeno con la sua semplice presenza, a legittimare trasmissioni nelle quali si imbastisce il processo parallelo”. Bruti Liberati è nettissimo: “dai delitti di sangue si è passati ai processi di mafia, criminalità organizzata e criminalità economica, affrontati anche essi con il canone della spettacolarizzazione, che ha trovato nuovi moduli. La presenza di magistrati in trasmissioni di questo tipo a prescindere dalle dichiarazioni che rendono e anche se la vicenda non è trattata dal loro ufficio, ineluttabilmente conferisce autorevolezza al processo parallelo. Ed è il colmo che, sempre ‘a fin di bene’, si intende, per evidenziare la vera VERITA’ (maiuscolo testuale, ndr), siano proprio magistrati a sponsorizzare il processo parallelo. Da certi contesti invece un magistrato, a mio avviso, deve puramente e semplicemente tenersi alla larga. Agli inviti a partecipare a certi dibattiti televisivi è possibile rispondere NO grazie (anche se ciò- e ne ho avuta personale esperienza, suscita lo sbalordimento degli interlocutori, abituati a ricevere pressanti sollecitazioni a partecipare piuttosto che dinieghi)”. Secondo il procuratore aggiunto di Milano i magistrati non debbono accettare nemmeno la proposta di una “dichiarazione pre-registrata”, perché sarà comunque “oggetto di un montaggio e rimane incontrollabile il come la dichiarazione preregistrata sarà inserita nel corso della trasmissione”.

DinosauRAI, quelli che si piazzano sulle tv di viale Mazzini e non li scollano più

Michele Santoro è il conduttore più longevo della storia della Rai e probabilmente della stessa televisione italiana. Soprattutto è il giornalista che da più anni fa sempre lo stesso programma, cambiando di tanto in tanto il nome e la scenografia dello studio (e per un triennio anche azienda, buttandosi fra le braccia del “nemico” Silvio Berlusconi). E’ passato quasi un quarto di secolo da quell’esordio da conduttore su Rai 3, un sabato sera del lontano 1986, la prima edizione di Samarcanda. Un quarto di secolo sempre uguali a se stesso che rappresenta un primato non solo per la tv italiana, ma anche in giro per il mondo. Bruno Vespa, che spesso viene associato a Santoro per contrapposizione, in effetti ci litiga anche lui da un quarto di secolo. Ma all’epoca faceva il giornalista del Tg1, e non il conduttore. Porta a Porta ha un marchio affermato e la sua bella età. Ma a fronte del Santoro show quel pogramma è poco più di un ragazzino: è iniziato nel 1996, ed ha 14 anni di età. Prendiamo un altro dinosauro della tv pubblica, bravo, bravissimo (anche Santoro lo è) come Giovanni Minoli. Anche lui ha condotto e fatto interviste sempre alla stessa maniera. Il suo programma, Mixer, è andato in onda a lungo sui teleschermi pubblici: 18 anni. Poi Minoli ha fatto altro e se ogni tanto ancora oggi riesuma il modello Mixer, lo fa in punta di piedi, sul satellite o non occupando più la programmazione di punta dell’azienda. Perché finchè funziona il modello Santoro, che provi a proporgli di fare altro e lui scatena piazze e procure per la lesa maestà, nessun altro può crescere nella televisione pubblica. Non è un caso se l’unico nuovo conduttore emerso in questi anni e a cui è stata data una vera chance, e cioè Giovanni Floris con la sua Ballarò, ce l’ha fatta solo grazie al contestatissimo editto bulgaro di Berlusconi. A Santoro non fu rinnovato il contratto (grazie a quel gesto ora starà in tv a vita), i palinsesti si liberano all’improvviso e un giovane come Floris- che come si è visto aveva talento- è potuto emergere. Senza quell’editto sarebbe ancora dietro a una scrivania polverosa ad attendere che qualche conduttore decidesse di rinunciare alla sua dittatura nell’etere. E avrebbe avuto qualche difficoltà anche a conquistarsi un posto in prima fila almeno come conduttore del Tg. Anche lì non scherzano. Si ironizza tanto sull’attaccamento alle poltrone dei politici e della Prima Repubblica, ma i giornalisti, anche nella seconda Repubblica non sono da meno. Al Tg1 c’è una conduttrice ex giovane (ma anziana non è) che però offre il suo bel volto ai telespettatori da un’epoca in cui perfino Santoro era ancora relegato a qualche rubrichetta di cinema e cultura sul Tg3. E’ Tiziana Ferrario, che dal 1982, spostandosi da un’edizione all’altra, conduce il Tg1. Anche qui un primato assoluto, sfiorato solo da un altro conduttore ancora in servizio, Maurizio Mannoni del Tg3, che ha iniziato nel 1987, e sono 23 anni. Terzo posto per Maria Luisa Busi, che è lì da 19 anni e sembra ancora una ragazzina. Quarta piazza per Maria Concetta Mattei (18 anni al Tg2). Ma non scherzano nemmeno Paolo Di Giannantonio (15 anni), Dario Laruffa (15 anni) e Attilio Romita (15 pure lui, ma fra Tg2 e Tg1). Intendiamoci anche altri conduttori di tg hanno dominato per anni sullo stesso teleschermo. Ma non lo fanno più, come Bianca Berlinguer (22 anni) e Lilly Gruber (19 anni). Hanno scelto ruoli diversi e dato la possibilità a qualche giovane di non trascorrere tutta la vita in attesa della propria chance. Tanti anni così e si rischia pure di essere ripetitivi. Se si percorre l’orologio della storia di Santoro si trova sempre lo stesso copione immancabile. Stesse trasmissioni, stesse polemiche, stessi magistrati pronti a intervenire, stesse reazioni: scioperi bianchi, piazze. Come ieri sera. Perché anche il Santoro day di Bologna non è affatto una novità. Accadde durante la campagna elettorale del 1992. In onda stava andando Samarcanda, e una puntata scatenò furiose polemiche: quella sull’assassinio di Salvo Lima. Santoro chiese alle folle antimafia di Palermo se erano contente di quella scomparsa, e venne giù il mondo. Gianni Pasquarelli, direttore generale della Rai, propose al consiglio di sospendere tutte le trasmissioni, Samarcanda compresa, durante la campagna elettorale. E così si decise: in onda solo le tribune elettorali. Non si sa come, Santoro riuscì a reagire e a mandare in onda uno spot di protesta: sigla di Samarcanda, ospite in studio e tutti zitti. Perché la Rai aveva messo il “bavaglio”. E non finì lì. Sciopero bianco, sit in di protesta in Sicilia, Samarcanda itinerante. E naturalemte minaccia di lasciare la Rai e denuncia in procura di Roma per sospensione di pubblico servizio e abuso di ufficio (Pasquarelli fu indagato). Bis nel 1993, con la Rai dei professori (Claudio Demattè presidente, Gianni Locatelli direttore generale, Pierluigi Celli capo del personale). Le Santoro-news furono ribattezzate “Il rosso e il nero”. Dovevano partire un giovedì, ma la rai non aveva promosso un suo caporedattore come voleva Santoro. Lui protestò come se quello fosse atto di censura. E annunciò di non andare in onda, sollevando sindacati e piazze. In nessuna azienda questo sarebbe stato tollerabile da parte di un dipendente. Ma non era un dipendente qualsiasi: era Santoro, il dittatore della tv che sarebbe durato al potere più di Benito Mussolini. E la purga ha riguardato tutti gli altri. Lui è ancora lì.

Bernabè sta pensando all'azione di responsabilità nei confronti di Tronchetti Provera

C’è un dossier da qualche giorno sulla scrivania dell’amministratore delegato di Telecom Italia, Franco Bernabè, dietro la decisione di rinviare l’approvazione dei conti consolidati 2009 del gruppo. Un faldone di documenti che la Deloitte insieme al nuovo amministratore delegato di Telecom Sparkle, Andrea Mangoni, ex numero uno di Acea, ha raccolto su mandato dell’azionista all’indomani dell’esplosione dell’inchiesta della procura di Roma. La Deloitte ha acquisito copia della documentazione in mano ai magistrati e scavato a fondo nella sede di corso Italia a Roma anche su tutta la corrispondenza fra il management della controllata e la società madre. Il compito della struttura di legal account di Deloitte è stato puramente investigativo per offrire all’azionista documenti e analisi sul rapporto fra controllata e controllori fin dagli albori dei fatti che hanno portato ai numerosi arresti (da Gennaro Mokbel a Silvio Scaglia fino all’ex amministratore delegato di Telecom Sparkle, Stefano Mazzitelli). Secondo fonti autorevoli interni al gruppo, il fascicolo documentale per ora provvisorio fornirebbe all’azionista elementi anche seri sulla conoscenza a livello apicale di tutto il business operato dalla controllata nel periodo 2003-2007. Non c’è al momento la smoking gun, la prova regina di una conoscenza da parte del vertice apicale di Telecom Italia all’epoca anche delle operazioni fittizie servite ad aggiustare i bilanci di Sparkle. Ma gli indizi non sono pochi, e comunque gli elementi essenziali delle operazioni Sparkle sarebbero stati forniti anno per anno alla capogruppo sia in occasione della presentazione dei budget che come pre-informativa all’approvazione dei bilanci. Ipotesi questa che era stata presa in considerazione anche dalla stessa magistratura, vista l’entità delle somme poste sotto sequestro cautelativo in occasione dell’applicazione delle ordinanze di custodia cautelare: 298 milioni di euro. Una cifra consistente anche per un gruppo grande come Telecom, tanto più che non erano stati appostate riserve ad hoc nel fondo rischi della controllata, che da quanto è venuta a conoscenza dell’inchiesta (fra la fine del 2006 e l’inizio del 2007) ha sempre difeso la propria linea di condotta. Gli elementi raccolti dal Deloitte legal team, su cui viene mantenuto il più rigoroso riserbo, secondo le indiscrezioni che Libero è riuscito a raccogliere, porrebbero al nuovo management di Telecom Italia, e quindi a Bernabè e al presidente Gabriele Galateri di Genola, anche l’ipotesi di un’azione di responsabilità nei confronti del management precedente. Il tema è naturalmente molto delicato, ma sono ormai molti gli elementi raccolti anche su altre vicende (non ultima quelle relative al Tiger team e alle intercettazioni illegali di cui è accusata la vecchia struttura di security capeggiata da Giuliano Tavaroli) che secondo i consulenti di Bernabè imporrebbero oggi l’avvio di una azione di responsabilità nei confronti del consiglio di amministrazione di cui era presidente Marco Tronchetti Provera con Carlo Buora amministratore delegato. Sarebbe- secondo quanto risulta a Libero che non ha però trovato conferma ufficiale dalla società- anche il dossier “azione di responsabilità” ad avere consigliato a Bernabè e Galateri il rinvio del consiglio di amministrazione della capogruppo che ieri avrebbe dovuto approvare i conti 2009. Dal gruppo si ricorda solo come l’attuale management Telecom avesse reso chiaro fin dal 25 febbraio scorso come si sarebbe fatto nel più breve tempo possibile e con assoluta determinazione luce sullo scandalo Sparkle che aveva portato all’inchiesta della magistratura. E in breve tempo sono stati sospesi altri dirigenti coinvolti che non erano ancora usciti dal gruppo. Ma ora lo scontro è destinato a salire sensibilmente di livello.

Ingrassato con la Rai, Santoro non si può mai mettere a dieta

Articolo 27 del contratto di lavoro giornalistico: “il direttore, il condirettore, il vicedirettore può essere licenziato anche in assenza di giustificata causa o di giustificato motivo”. Vale per tutti i giornalisti italiani meno uno: Michele Santoro. Per lui e per la Rai che sarebbe il suo editore, non vale il contratto di lavoro giornalistico. E’ direttore a prescindere e a vita, per editto (italiano, ma assai più bulgaro di quello celebre) di un magistrato. Non è licenziabile, non è contestabile, non è sostituibile. Si trattasse di un qualsiasi altro giornalista, di quelli che a differenza sua sono sottoposti a regole e contratti, domani sera andando in onda da Bologna dovrebbe dire addio alla Rai per evidente violazione dell’esclusiva contrattuale. E invece non accadrà, perché Santoro è protetto da un lodo assai superiore a quello ideato da Angelino Alfano: per lui immunità assoluta, e non per via costituzionale. Nemmeno ha dovuto scomodare una legge. E’ bastato un editto di un giudice. Da ore gli avvocati della Rai sono al lavoro per verificare la violazione del contratto di esclusiva che Santoro ha firmato in cambio di oltre 700 mila euro, ma è tempo buttato via. Come con una certa amarezza sosteneva ieri un alto dirigente: “tanto esiste in Italia un giudice disposto a dare ragione alla Rai contro di lui? Possiamo avere tutte le ragioni del mondo. Nessuno ce le riconoscerà”. E’ vero: come si può pensare che ci sia un giudice disposto a dare torto al nuovo leader del partito delle procure? Lui è fuori dalla legge. Vi è sopra. In più è pure un incantatore di serpenti, talmente abile da avere schierato a propria difesa proprio quei babbioni del sindacato unico dei giornalisti. Che c’entra la Fnsi a protezione di Santoro? E’ come se la Caritas si mobilitasse a garantire un pasto caldo a Silvio Berlusconi. Michele chi? Occupa militarmente una serata tv Rai dal 1987. Lì si è fatto blindare dall’editto italo-bulgaro, come un tappo sul prime time della tv di Stato. Per colpa sua non avranno chance nuovi talenti, non potrà crescere un giovane, qualche precario resterà precario a vita. Basta guardare quel che è accaduto in queste settimane. Con una decisione più che discutibile la Rai ha sospeso in campagna elettorale tutti i talk show. Meno puntate significa anche meno lavoro. Meno stipendio per tutti quelli che lì lavoravano e non essendo vip non godevano di un minimo garantito. Che hanno fatto Fnsi e Usigrai? Bracci di ferro, manifestazioni, comizi di fuoco per ottenere che a parte i contratti che durano pochi mesi e pochi euro, ai poveri precari non fosse tolto un mese di stipendio così? Figurarsi! Se ne preoccupa Santoro di quei poverelli? No, lui è impegnato a tenere alto il suo peso politico, che vale oro. E quindi, se il conduttore principe se ne frega dei suoi precari, ci deve pensare il sindacato? Quello come sempre è alla corte del vero potente, mica lì a curarsi dei poveracci. Cari signori della Rai, ritirate allora i vostri avvocati e giuristi. Inutile aggiungere al danno anche lo sberleffo di Santoro e dei suoi amichetti in tribunale. Arrendetevi, lui non è un dipendente. Da tempo le parti sono invertite. E’ un capo di partito, il più forte che c’è. Lo volevano fare fuori ai tempi di dc e psi. Ma è ancora lì, nello stesso posto. Sono democristiani e socialisti a non esserci più. Quella di domani sera sarà solo una manifestazione di partito. Lo ha certificato Sky Tg24 che la trasmetterà in diretta: “l’abbiamo fatto anche con il Pdl a San Giovanni”. E allora beccatevi l’onorevole Santoro. Non si nega una piazza per un comizio in campagna elettorale. Poi ci dirà la questura quanti l’avranno seguito…

Per non pagare un euro il pm Spataro invoca il suo lodo Alfano

Il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro, invoca per sé una sorta di lodo Alfano per proteggersi dall’azione giudiziaria di un collega. Il pm che è stato uno dei più fieri oppositori del lodo Alfano e dell’immunità parlamentare in genere (il prossimo 24 marzo spiegherà la sua avversità in un convegno a Napoli), condannato dopo una lunga battaglia legale in appello a risarcire simbolicamente con un euro la diffamazione di un collega, Angelo Di Salvo, ha appena presentato ricorso in Cassazione invocando l’immunità riservata ai consiglieri del Csm. I fatti oggetto della controversia fra magistrati che ha visto capitolare Spataro risalgono infatti al 2002, quando il procuratore aggiunto di Milano era membro togato del Csm. E la legge sull’immunità per tutte le espressioni di pensiero e gli atti compiuti durante la permanenza del Csm esiste davvero: è la numero 1 del 31 gennaio 1981. Pochi magistrati hanno fatto ricorso a quello scudo previsto dall’articolo 5 della legge. E nessuno l’ha mai impugnata davanti alla Corte Costituzionale, anche se nel dibattito scientifico quella norma è stata assai criticata. E’ praticamente identica al lodo Alfano: una legge ordinaria (che secondo la recente pronuncia della Corte Costituzionale sarebbe dunque illegittima) che introduce una immunità identica a quella prevista dall’articolo 68 della Costituzione per i parlamentari anche per tutti i membri del Csm che è un organo solo di rilevanza costituzionale. La contesa fra i due magistrati da cui Spataro oggi vorrebbe essere protetto grazie a quel Lodo Alfano ad hoc per il Csm risale al 2002. Fu allora che il giudice campano Angelo Di Salvo si iscrisse alla maling list “Civilnet” di cui era fondatore e amministratore l’attuale procuratore aggiunto di Milano. A Di Salvo qualche collega aveva spiegato che grazie a quello strumento via e-mail avrebbe potuto leggere in anteprima circolari e interpretazioni giurisprudenziali utili al suo lavoro. Dopo qualche settimana il magistrato campano si accorse che quella mailing list era assai poco tecnica. Era invece una sorta di manifesto politico di giudici assai schierati. In una delle mail arrivò una lunga dissertazione di un magistrato di Lecce sul “riconglionimento” (testuale) degli italiani che avevano votato per Silvio Berlusconi. Di Salvo raccolse il materiale ricevuto, lo inviò al Csm ponendo un quesito: “è così che si può difendere l’imparzialità e l’obiettività della nostra categoria?”. Invece di essere ringraziato dal supremo organo della magistratura, fu lui ad essere messo sotto processo. A intentarglielo, in seduta pubblica e trasmessa da Radio radicale, proprio Spataro. Che lo accusò di violazione della privacy e – per farla breve- annunciò di volere proporre l’apertura di un fascicolo sul collega, descrivendolo come inattendibile e già coinvolto in procedimenti penali e disciplinari. Quei fatti a cui Spataro alludeva risalivano a 11 anni prima, e per altro si erano chiusi con la piena assoluzione di Di Salvo. Questi, ascoltando la seduta, si risentì e querelò Spataro per diffamazione. In primo grado il procuratore aggiunto di Milano è stato assolto, e anzi ha ottenuto lui un risarcimento di 12 mila euro subito richiesto con atto ingiuntivo e pignoramento di un quinto dello stipendio del collega che lo aveva querelato. In secondo grado la sentenza è stata ribaltata, e Spataro condannato al risarcimento simbolico del collega per un euro, oltre alla restituzione di quanto pignorato e al pagamento di parte delle spese processuali. Ora il caso approda in Cassazione, di fronte a cui è stato invocato quel lodo Alfano per i giudici del Csm che se applicato d’ora in avanti potrà essere ribattezzato “lodo Spataro”. A meno che sia il ministro Angelino Alfano questa volta a impugnarlo per ripicca di fronte alla Corte Costituzionale.

Giù le mani dalle nostre indennità! Basta toccare la loro tasca e perfino l'Idv si trasforma in casta

Riformate tutto, ma non tagliateci lo stipendio. A sorpresa in Senato è risorta fra le fila dell’opposizione la casta, che sta facendo fuoco e fiamme per garantire superstipendi ai prossimi eletti nei consigli regionali. Pd e Idv hanno infatti sollevato eccezione di costituzionalità nei confronti dell’articolo 3 del decreto legge a firma Silvio Berlusconi, Roberto Calderoli ed altri, che punta a calmierare fra le altre anche le spese delle Regioni per il funzionamento dei propri organi istituzionali: consiglio e giunta. A dire il vero non è che avesse calato la mannaia sugli stipendi. Ha solo proposto una norma quadro di buon senso, lasciando piena autonomia a ciascuno: “Ciascuna Regione”, stabilisce l’articolo, “a decorrere dal primo rinnovo del consiglio regionale successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto, definisce l’importo degli emolumenti e delle utilità, comunque denominati, ivi compresi l’indennità di funzione, l’indennità di carica, la diaria, il rimborso spese, a qualunque titolo percepiti dai consiglieri regionali in virtù del loro mandato, in modo tale che non accedano complessivamente, in alcun caso, l’indennità spettante ai membri del Parlamento”. Insomma: superstipendi sì, ma non più di quelli che si concedono a deputati e senatori. Sembrava filare liscia, e invece, apriti cielo! Quando hanno visto quel taglio per i loro beniamini, coro di proteste nelle fila del Pd e perfino dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. “E’ incostituzionale, è incostituzionale!”, hanno tuonato all’unisono scoprendosi improvvisamente superfederalisti, e a poco è servita la spiegazione della maggioranza di non volere prevaricare le Regioni: ognuna deciderà autonomamente, nel limite però di un tetto di spesa che anche i cittadini dovrebbero apprezzare. Il braccio di ferro è in corso, e per ripicca Pd e Idv hanno inondato le commissioni riunite (Affari costituzionali e Bilancio) di palazzo Madama di centinaia di emendamenti. Che non solo puntano a sventare il calmiere governativo sugli stipendi della casta, ma a fare allargare i cordoni della borsa nei confronti dei loro beniamini e affiliati, tutti professionisti della politica che non saprebbero come sbarcare il lunario senza le generosità pubblica. Nelle fila del Pd pioggia di proposte per fare risorgere dopo il taglio governativo (già ammorbidito dalla Camera)le comunità montane anche quando sono a livello del mare. Clamoroso fra i tanti un emendamento dell’Italia dei valori, primo firmatario Pancho Pardi (ma ci sono anche altri pezzi grossi come Felice Belisario e Stefano Pedica) che getta nel cestino anni di prediche inutili (ed evidentemente un po’ false) sui costi della politica e la necessità di tirare la cinghia. I valorosi dipietristi (emendamento 4.53) chiedono infatti di restituire ad amministratori e consiglieri di enti locali dalle mani bucate quel taglio del 30% dei loro stipendi che nel 2009 aveva loro comminato Giulio Tremonti come punizione per non avere rispettato l’equilibrio dei conti previsto dal patto di stabilità. La nuova casta è dunque tornata.